Per tentare un bilancio dopo la prima uscita di Baptistery_A, oltre a rimandare a quanto  già premesso nella presentazione, mi sembra opportuno un personale cappello che tenti un resoconto sull’esperienza di questa anomala installazione nella sua ‘tenitura’, dalla trionfale inaugurazione il 22 marzo, che ha registrato un incredibile afflusso di pubblico mai visto in Palazzo Pucci, che ne ha a stento sopportato l’onda d’urto di quasi un migliaio di persone. Affollamento che è continuato anche nei giorni di apertura (purtroppo solo 3 settimanali) fino alla chiusura (l’8 aprile). Tutto ha inizio dallo studio di Silvio Loffredo che, come spiego nella citata presentazione, rivedo dopo decenni. Da qui il desiderio di rendere omaggio al misconosciuto Maestro con una serie di mostre. Il primo che aderisce è il fotografo Pietro Schillaci, il cui entusiasmo lo rende il vero motore dell’operazione. Cogliendo appieno i miei desiderata, dà vita ad una campagna che si protrae per quasi un anno e si svolge nell’arco delle 24 ore di ogni giorno alla ricerca di ogni condizione di luce anche nelle sue varianti stagionali. Oltre alle immagini catturate dall’ultimo piano del Palazzo del Bigallo e dal suo magico terrazzino, nel quale coglie lo specchiarsi del Battistero reale in quelli dipinti da Loffredo, sfruttando ogni gioco di riflessi, ombre e rifrazioni, ne afferra inusitati dettagli e particolari da ogni angolazione, da raso terra fino ad altezza lanterna. In totale saranno più di 5.000 gli scatti che già la sua rigorosa selezione “salva”. Un migliaio di essi andranno nel video che sempre lui confeziona con geniale scansione filmica, cui io mi limito a commissionare la musica al poliedrico amico di sempre Stefano Davidson, il quale realizza un gioiello di colonna sonora in crescendo calcolata al millimetro. Pronto quindi l’aspetto “immersivo” della mostra, con la quale ci proponiamo di suscitare e muovere emozioni, di far vivere il Battistero al visitatore “ad un’altra e alta intensità”. Convengo con Schillaci che non ha senso appendere meramente delle stampe alle pareti, come in qualsiasi mostra fotografica: dobbiamo trovare qualcosa di diverso, che cambi l’orizzonte dello sguardo. È a questo punto che a Pietro viene l’idea di coinvolgere Roberto Pupi, artista che lavora e manipola le foto, rendendole quasi oggetti, talvolta scatole, dischi ecc., piegandole, intelaiandole in montature anamorfiche quasi a restituire una tridimensionalità concreta: è lui la ciliegina sulla torta, il cui apporto determina la riuscita dell’impresa con essenziale sintesi. Dopo una prima idea di realizzare una struttura pensile, accantonata per i costi troppo elevati, Pupi propone la soluzione del “tappeto puzzle” steso sul pavimento, che sarà quella adottata. E studia a tavolino la composizione fino a pervenire allo schema della disposizione definitiva, cui seguirà il paziente lavoro, anche manuale, di costruzione. Tale impostazione ci consente di venire incontro a quella che era la nostra volontà di disincrostare le abitudini visive dello sguardo sul monumento, rovesciando il punto di vista nel costringerlo a guardare in basso, come dallo Studio di Loffredo, invece che in alto, come avviene comunemente dal piano strada. E restituire anche l’idea dello scorrere del tempo, quasi come l’increspatura delle acque di un fiume, ma anche frammentare le immagini come in un rompicapo che sta all’immaginazione scomporre e ricomporre girandogli attorno. Solo 36 le immagini rettangolari a terra, tre “testine” e il trittico della lanterna con la nuvola in parete è tutto ciò che andrà nella prima “stanza”, mentre nell’altra scorrerà in continuum il video di un minuto.

Purtroppo mi sarà possibile seguire di persona l’evolversi del lavoro fino ai primi passi del suo farsi. Poi sarò ricoverato in ospedale con una degenza che si protrarrà inaspettatamente per oltre un mese e con infauste scoperte diagnostiche. Non posso nemmeno ricevere visite a causa del covid, per cui sarò informato dell’avanzamento del lavoro dai video e foto che Pietro mi manda, riuscendo a incastrare la vernice tra una chemio e l’altra e con appena il tempo di elaborare, sempre con Pietro che cura anche l’intera parte grafica, il materiale promozionale..

Gli esiti, come accennato, sono andati al di là di ogni più rosea aspettativa. Merito, ora che è possibile vedere retrospettivamente l’intera vicenda, soprattutto del miracoloso equilibrio e intesa stabilitosi tra noi e che ha portato ad un risultato che non sarebbe stato tale senza una delle tre “parti in causa”. Ma quello che non ci aspettavamo è che il pubblico, quanto mai eterogeneo, ci ha fatto capire quanto noi stessi non osavamo sperare o che solo avevamo intuito, regalandoci suggestioni, quando non vere e proprie illuminazioni. C’è chi ci dice che abbiamo creato un format totalmente nuovo nel mondo dell’arte, suscettibile di continui aggiornamenti ed espansioni, chi trova collegamenti gnoseologici e simbolici a noi ignoti e chi semplicemente si dichiara scosso e commosso dalla visita (che è quanto più ci premeva).

Scrive il critico Nicola Nuti, uno dei pochi veri rimasti su piazza: «Con Fabio Norcini abbiamo condiviso da decenni passioni, rabbie, interessi e sottintesi. E ora questa non mostra che lui ha curato e creato. Perché non mostra? Perché non c’è niente da mostrare, cioè esibire. Perché è una ricerca intima nata sulle corde di un’affinità d’animo tra artisti. Protagonista è il Battistero, felice ossessione del Nostro, di Pietro Schillaci, Roberto Pupi e, prima di loro, di Silvio Loffredo, Kokoshka e Le Corbusier. La LDM Gallery ha dunque prestato gli spazi (fino all’8 aprile) per questa ricerca che intreccia immagini, musica e movimento (interiore). Assolutamente da vedere».

Aver saldato il momento della nascita (che cos’è infatti un battistero, se non il luogo dove i cristiani cercano di esorcizzare quello che cioranianamente può definirsi l’inconveniente di essere nati?) con quello della morte è ciò cui forse inconsciamente miravo con questa “operazione”: semplicemente “una cartolina ricordo alla vita, senza indirizzo e senza francobollo”, come si legge nella bella poesia di Fabio Garriba Adagio per sempre.

 

Fabio Norcini

1 Questo il testo integrale, pubblicato in Fabio Garriba, Il fastidio delle parole, La Nave di Teseo, Milano, 2018, pp. 139-40

 

Sempre spavento mi ha dato la vita,

la morte non mi impaura:

inevitabile come l’amore,

la speranza, come il dolore

come il come senza come.

Precisa l’aspetti e lei ti avverte.

Telefonata breve: “Passo domani alle 11!”

“No!” urlo immediatamente: “Facciamo alle 14”

“Va bene passo alle 17”.

Tiri dei respiri, uno degli ultimi.

Ti rilassi, hai tempo per la valigia

Come per una vacanza inaspettata

t’accorgi che per l’aldilà occorrono

molte meno cose che per l’aldiquà.

Alla soglia della vita c’eri arrivato

nudo, senza nulla, senza valigia, senza voglia,

senza futuro con tanti, troppi senza.

Cominci a guardare l’orologio

lo appoggi sul tavolo:

l’ora della morte è senza lancette.

Della valigia non c’è bisogno

hai infilato un borsello a tracolla,

dentro: i documenti, le foto di chi hai amato,

degli amori che non hai avuto;

t’accorgi con stupore che da sempre

sei stato su quest’altra soglia.

Ti siedi davanti alla porta di casa,

accendi la musica di Mozart

e speri che non abbia, almeno lei

Madama Morte, dimenticato le chiavi di casa,

che non sbagli campanello

che tutto funzioni

in attesa dolcissima dell’infinito

che ti attende finalmente

per sempre!

Alla vita?

Solo una cartolina ricordo

senza indirizzo né francobollo!

Poi come un bambino istupidito

aspetti di vederle la vita e la morte

unite in un adagio per sempre.