Roberto Pupi Margherita Verdi

SOTTOVUÒTO

Per una città epidermica

 

a cura di Erica Romano

 

 

sottovuòto (o 'sótto vuòto') avv. e agg.

riferito a prodotti, spec. alimentari o farmaceutici, disposti in un contenitore

nel quale sia stata eliminata l’aria per una migliore conservazione degli stessi:

farmaci confezionati s.confezione s. di prodotti alimentaris. spinto,

con eliminazione pressoché totale dell’aria nel contenitore.

 

 

La visione di un paesaggio spesso ci cattura proprio per la sua capacità di restituire di sé un clima, un’atmosfera che spesso chiamiamo in modo del tutto indefinibile e intraducibile come “aria”, indicando un insieme di odori, suoni e percezioni multisensoriali di quello che in realtà è un complesso organismo vivente, mutevole nel tempo, percorso e attraversato da millenni di storie di popoli e individui, ognuna più o meno sedimentata e radicata, ma tutte presenti nel palinsesto che ogni territorio mostra nel suo essere un panorama geografico, antropologico, architettonico, ecc. Che mostri tracce di un transito passeggero o impronte di un’identità consolidata, in ogni caso il paesaggio dichiara sempre di avere una natura ambigua che oscilla tra due spinte, interna ed esterna, tra conservazione e mutamento, nel difficile equilibrio tra elementi fissi e altri mobili, tra complessità irrazionale e ordinata razionalità, tra armonia e divergenze.

 

Il volto delle nostre città, in particolare, si delinea come un modello esemplare di quel panorama variegato di possibilità e di punti di vista che si moltiplicano oggi ad una velocità inaudita e inafferrabile. Roberto Pupi e Margerita Verdi, con il progetto espositivo Sottovuoto. Per una città epidermica, sembrano voler scardinare le leggi che si sono sovrapposte nei secoli all’interno di spazi urbani, sempre più caotici, attraverso una riflessione sulla natura dell’immagine in rapporto ai luoghi quali oggetto della rappresentazione. Un tentativo, forse, di fermare la corsa e stabilire nuove regole all’interno di un perimetro che non vuole più essere un mero contenitore di architetture, impianti stradali, arredi urbani o, ancora, di interazioni generate da contatti furtivi, ma un perimetro civico che diventa dispositivo che favorisce più profonde relazioni. Nella percezione di una città, intesa anche come una sorta di macchina del tempo, entra in gioco il valore della presenza umana che, per Pupi e Verdi, è responsabile dell’accelerazione che ha alterato in maniera inorganica i molti luoghi amati, vissuti, e che troviamo all’interno della loro opera installativa. Questo il motivo per cui la figura umana, quale elemento che altera il paesaggio, ha una potenza che gli artisti hanno scelto di eliminare dagli scatti per poter ridisegnare nuove traiettorie di orientamento. Le immagini, inoltre, fissate su leggeri sostegni di polistirolo sagomati, ci appaiono come contratte, risucchiate da un apparecchio per il sottovuoto di alimenti, amplificando in tal modo l’idea di uno spazio svuotato delle sue funzioni ma che in realtà possiede un suo respiro, una sua propria ritmica che chiede di poter essere riattivata da un tocco consapevole.

 

Pupi e Verdi restituiscono così degli habitat inabitati e quasi alieni, spersonalizzati, come fosse un’osservazione oggettiva e analitica della qualità e della natura dei diversi insediamenti umani. L’idea del sottovuoto, che siamo abituati ad associare ad alimenti o a piumoni troppo ingombranti per fare spazio nell’armadio col cambio stagione, in relazione al paesaggio urbano diventa un atto di sottrazione, in questo caso di aria – metaforicamente intesa come l’insieme complesso delle caratteristiche che identificano un luogo – per mettere ancora più in evidenza elementi strutturali e portanti o segni lasciati dal tempo e dal passaggio della storia. Togliere per sottolineare, o meglio evidenziare, sembra allora la cifra per conferire nuovo senso e significati ad immagini di città che percepiamo nella realtà contemporanea manipolate e svuotate della loro essenza.

L’immagine di un paesaggio urbano disabitato ma sorretto da volumi che danno alla fotografia un’inedita tridimensionalità, si presenta allora come una scatola prospettica per ridisegnare in quei vuoti dei percorsi alternativi e predisposti a nuove contaminazioni. Il progetto vuole per questo essere anche un lavoro corale, di reciproca influenza e contaminazione, appunto, una collaborazione dove sembra esserci una sola e unica mano creativa in cui i diversi interventi non sono direttamente riconducibili ad uno dei due autori. Mettere “sottovuoto” la città, quando conservare a lungo una merce è una delle definizioni che troviamo associate al primo termine, significa anche lanciare un’importante provocazione, che ha spinto gli artisti a giustificare ulteriormente l’eliminazione digitale di qualsiasi interferenza umana dai loro “ritratti urbani”: i luoghi non sono un bene di consumo, ma ritratto di un patrimonio comune da salvaguardare, conoscere e fruire, incrocio complesso di volontà e progettazione, contenitore-dispositivo di un immaginario collettivo.

 

Non a caso, uno dei punti della Convenzione Europea del Paesaggio afferma: “Salvaguardia dei paesaggi indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d'intervento umano”. Appare evidente allora che Pupi e Verdi abbiano operato un “tipo d’intervento umano” volto alla riscoperta di alcuni aspetti significativi propri della città ma, al contempo, a prendere coscienza che il paesaggio assume uno specifico valore di patrimonio anche grazie allo stesso intervento umano. Si viene a determinare un rapporto intimo e profondo tra i due elementi che di fatto “fanno” il paesaggio, pertanto l’azione umana deve essere una scelta responsabile, un atto che è espressione della capacità di farsi estensione, epidermica potremmo dire, del paesaggio stesso, ma in chiave non individuale bensì collettiva e comunitaria.

 

L’iniziale sensazione alienante cede ora il posto ad una dimensione più calda e partecipe, in cui considerazioni estetico-formali e funzionali del paesaggio urbano si intersecano, e ciò grazie ad un progetto espositivo che utilizza il medium fotografico e l’installazione per compiere una ricognizione non tanto sul paesaggio in sé ma su ciò che influenza il nostro modo di guardare e di vivere i luoghi e la loro natura. Il punto di vista oggettivo – offerto dal concetto di sottovuoto come ridefinito dagli stessi artisti – da una parte tenta di descrivere i tanti elementi strutturali e visibili che vanno a formare il vero e proprio palinsesto storico, ambientale e sociale prima accennato di un paesaggio, mentre dall’altra si incontra necessariamente con quello soggettivo della rappresentazione offerta dai due autori Pupi e Verdi. L’invito è a prendere una posizione sapendo di essere parte di un paesaggio che, in quanto bene comune e “cosa pubblica”, è esso stesso parte integrante di un patrimonio culturale che garantisce, in un’unica visione organica, conoscenza e sviluppo dei meccanismi di consolidamento delle identità ma anche tutela delle diversità culturali, mirando a riconquistare il rapporto tra cittadini e territori da considerare come luoghi di vita plurali e condivisi, ma soprattutto aperti al respiro del mondo.

 

 

a cura di Erica Romano