Lungo la carriera di Carlo Cantini il lavoro con cui, agli inizi degli anni Ottanta, esplora una dimensione metamorfica del corpo, tra il movimento e il colore,  rappresenta solo una delle direzioni in cui si è spinta la sua inesausta ricerca. Nella fotografia Cantini ha sempre tentato l’interpretazione di nuovi rapporti tra l’immagine e la sua possibile registrazione, mettendo in gioco lo sguardo, i soggetti e le tecnologie come elementi flessibili e tra loro complementari. Così, le opere raccolte sotto il titolo epico La terza nave, e altre simili di quel periodo, costituiscono una variazione nel panorama della sua intera produzione, ma non del tutto un’eccezione. Per Roberto Pupi invece la dissonanza rispetto a una lettura piana dell’immagine, l’esercizio di frammentazione e ricostruzione su una geometria tridimensionale, è diventato negli anni un tratto caratteristico, fino a connotarsi pienamente come il suo elemento più riconoscibile. La fotografia, nel lavoro di Pupi, ha da tempo abbandonato i confini rassicuranti della cornice per farsi architettura e soggetto interattivo con l’ambiente: corpi, paesaggi e altri soggetti chiamano lo sguardo dell’osservatore a completare la loro forma, ma senza coordinate e esiti definiti, lasciando aperto e mobile ogni possibile risultato.

In entrambi i casi i due artisti lavorano sua una trasformazione dell’immagine: Carlo Cantini coglie un istante da un processo in corso, riuscendo a coagulare in uno scatto l’intera densità di un movimento, Roberto Pupi innesca questa trasformazione dopo che il processo di cattura dell’immagine è stato compiuto, creando un riverbero nello spazio. Le foto scattate da Cantini quasi quattro decenni fa vengono ora ristampate e montate sui telai mossi, poliedrici di Pupi. Il risultato è una moltiplicazione dello spaesamento percettivo che le prime e i secondi producono autonomamente. Questo incontro tra i due artisti è sorprendente negli esiti ma non del tutto imprevedibile, vista la vivacità inossidabile di Carlo e la vocazione sperimentale di Roberto, e sollecita una riflessione sul nostro modo di osservare l’arte. La rivisitazione di un’opera e la sua riattualizzazione, immettendosi nel circolo della secolare speculazione teorica sulla riproduzione e sulla post-produzione, mette in discussione tutto quello che è stato detto sugli strumenti di cui disponiamo per leggere un’immagine e argomentarla in una descrizione che consideri il medium e il suo tempo storico. In questa prospettiva anche il lavoro realizzato in coppia dai due artisti impone agli osservatori la definizione di altre categorie estetiche per posizionare l’esperienza della visione rispetto al mondo, e richiede così un ulteriore atto creativo, di interpretazione.

 

Pietro Gaglianò